Un rapporto elaborato dagli esperti della Struttura Transizione Ecologica della Mobilità e delle Infrastrutture (STEMI) – del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili – sottolinea che le soluzioni basate su l’elettrificazione diretta (BEVs) sono chiaramente più competitive dal punto di vista dell’efficienza energetica e della capacità di carbonizzazione.
Il rischio? Distribuire gli investimenti su tante soluzioni differenti, ritrovandoci con infrastrutture inutilizzate e da mantenere.
In Italia, il settore dei trasporti era responsabile nel 2019 (ultimo anno pre-Covid) del 25,2% delle emissioni totali di gas ad effetto serra e del 30,7% delle emissioni totali di Co2. Il 92,6% di tali emissioni sono attribuibili al trasporto stradale.
E mentre in Italia le emissioni si sono ridotte dal 1990 al 2019 del 19%, i trasporti sono uno dei pochi settori che hanno riportato una crescita di emissioni (+3,2% rispetto al 1990), insieme a quello residenziale, dei servizi e dei rifiuti.
Sono dati che emergono dal rapporto “La decarbonizzazione dei trasporti – Evidenze scientifiche e proposte di policy”, elaborato dagli esperti della Struttura Transizione Ecologica della Mobilità e delle Infrastrutture (STEMI) del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (MIMS). La STEMI ha il compito di elaborare indicazioni di policy per la transizione ecologica della mobilità e delle infrastrutture, anche alla luce dell’attuale discussione in sede di Consiglio europeo del Pacchetto Fit for 55 presentato dalla Commissione europea in attuazione della strategia del Green Deal.
La bassa resa energetica dell’idrogeno
Il merito del rapporto STEMI è di dare indicazioni scientifiche su quali sono le tecnologie più pronte oggi per dare un contributo positivo alla decarbonizzazione.
La risposta è chiara: i motori elettrici sono la soluzione per le automobili e gli autobus, in buona misura anche per i tir; sono utilizzabili anche per aeroplani e navi, ma solo per brevi tragitti, mentre oltre si deve puntare su biocombustibili sostenibili e idrocarburi sintetici.
Allo stato attuale della tecnologia, pur se in modo diplomatico il rapporto boccia l’idrogeno, in primis per l’efficienza energetica assai inferiore a l’elettrificazione diretta: un elettrolizzatore per produrre idrogeno “verde” ha oggi un’efficienza media di circa il 65%, destinata a crescere in seguito all’innovazione tecnologica – è compensata da una migliore efficienza dei convertitori nei confronti dei motori a combustione.
Le celle a combustibile, che trasformano l’idrogeno in energia elettrica per alimentare il motore elettrico del mezzo, hanno efficienze dell’ordine del 55% dell’energia in moto/lavoro utile, per una resa energetica complessiva del sistema dell’ordine del 35%, sempre assai inferiore a sistemi totalmente elettrici.
Inoltre l’idrogeno comporta ancora costi alti e perdite energetiche importanti (per trasporto e distribuzione) e ad oggi la produzione è derivata da sole fonti fossili, al 95% gas naturale.
I numeri parlano a favore dell’elettrico: ma con quali contro?
Insomma, secondo il rapporto STEMI le soluzioni basate su l’elettrificazione diretta (BEVs) sono chiaramente più competitive dal punto di vista dell’efficienza energetica e della capacità di carbonizzazione.
Già con il mix energetico attuale la sostituzione dei veicoli a combustione interna, che oggi rappresentano il 99% del trasporto stradale italiano, con veicoli elettrici comporterebbe per il nostro Paese una riduzione del 50% delle emissioni sul ciclo di vita del trasporto leggero su strada. Un risultato ancora migliore si otterrebbe aumentando la quota di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, come già previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Certo le problematiche non mancano.Le batterie richiedono l’utilizzo di una serie di materiali, alcuni metalli e grafite, i cui livelli di produzione attuali dovranno essere aumentati sostanzialmente (e in maniera sostenibile) per soddisfare una domanda di batterie prevista in forte crescita. Questo può indurre cambiamenti strutturali importanti per le catene di approvvigionamento di materie prime, aumentando la domanda di alcuni metalli (es. litio, nichel, cobalto) e riducendo quella di combustibili fossili, con potenziali significative implicazioni di natura geopolitica.
Altro elemento fondamentale è l’ottimizzazione della qualità e durabilità delle batterie, che sono la componente più costosa di questo tipo di tecnologie. La ricerca e lo sviluppo industriale di nuove tecnologie di batterie è oggi il principale settore strategico che ha il potenziale di accelerare e ampliare la gamma di applicazioni dell’elettrificazione nei trasporti.
Se oggi le migliori batterie impiegate nelle auto elettriche (tutte agli ioni di litio) hanno una densità energetica di circa 250 Wh/kg di peso, nei laboratori si stanno già sperimentando nuove soluzioni con densità energetiche più che raddoppiate che potrebbero arrivare sul mercato nel giro di 3-5 anni e con significativi miglioramenti nella domanda di materiali rari o critici.Altre limitazioni possono essere legate a squilibri tra domanda e approvvigionamento di elettricità, il che potrebbe richiedere ulteriori sviluppi investimenti che possono incrementare il costo totale della scelta dell’elettrificazione diretta rispetto a soluzioni alternative.
Tuttavia, le esperienze di paesi Scandinavi, inclusa la Norvegia, che già oggi ha in circolazione circa il 20% di veicoli elettrici (ormai l’80% delle vendite di nuovi veicoli), dimostrano che il sistema elettrico, basato fortemente su energie rinnovabili (compreso eolico, variabile, e idroelettrico, pilotabile) non ha ancora avuto ancora bisogno di sostanziali ristrutturazioni e potenziamenti. Resta la criticità relativa al riciclo delle batterie, su cui il rapporto non si sofferma più di tanto e che merita una trattazione a parte.
I combustibili sintetici sono ancora lontani dalla commercializzazione
Le altre alternative ai motori tradizionali presentano qualche luce e molte ombre.
Secondo il rapporto, la parziale sostituzione dei combustibili convenzionali con biocombustibili porta a vantaggi marginali in termini di riduzione delle emissioni, in quanto il profilo di emissioni dei biocombustibili, anche di seconda generazione, è comunque alto e comporta basse efficienze e notevoli costi energetici.
Quanto ai combustibili sintetici, non hanno un livello di sviluppo tecnologico vicino alla commercializzazione e presentano anch’essi efficienze e costi energetici non ottimali che ne fanno prevedere un utilizzo futuro in particolare per il settore aeronautico e navale. Va comunque considerato che l’utilizzo di questi combustibili alternativi comporta comunque emissioni inquinanti nocive per la salute e per l’ambiente.
Ancora, biometano, idrogeno, biocombustibili e combustibili sintetici saranno disponibili in quantità limitate, a causa dei vincoli di disponibilità di biomasse sostenibili o di energia rinnovabile a basso costo.Un altro fattore importante da tenere in considerazione nell’analisi dei costi (anche in prospettiva futura) è la scala produttiva, dal momento che una produzione di vasta portata è generalmente associata a costi unitari inferiori per via di economie di scala, progresso tecnologico e riduzione del profilo di rischio. Non a caso, negli ultimi due decenni incrementi produttivi significativi si sono verificati principalmente per tecnologie legate ad energie rinnovabili (eolico, solare) e stoccaggio dell’elettricità (batterie). In quest’ultimo caso, gli sviluppi in scala sono in larga parte avvenuti grazie a un accresciuto interesse per applicazioni ad alto valore aggiunto (in particolare nell’elettronica e secondariamente nel comparto automobilistico).
Il criterio del “low regret”, ovvero buon senso
Secondo il rapporto STEMI siamo all’inizio di una profonda rivoluzione del settore dei trasporti e della mobilità. Ci sono notevoli differenze di efficienza, di profili emissivi di gas serra e di inquinanti, di costi, di disponibilità e prospettive tecnologiche. Dobbiamo quindi domandarci se sia necessario, in nome della neutralità tecnologica, distribuire gli investimenti su tante soluzioni differenti, con il grande rischio di trovarsi a breve con infrastrutture inutilizzate e da mantenere. Le scelte, anche tecnologiche, vanno fatte sulla base di dati, confronti e valutazioni anche di carattere strategico. La principale peculiarità delle decisioni deve essere quindi quella del “low regret”, ovvero procedere con opzioni che comportino bassi rischi di insuccesso.
Per fare un esempio, l’ampliamento della infrastruttura pubblica di ricarica per le auto elettriche ha sicuramente un bassissimo rischio di fallimento, così come la realizzazione di gigafactories per una produzione europea di batterie al top dello stato dell’arte. Similmente, la reintroduzione di incentivi per l’acquisto di auto elettriche – o di disincentivi per altre scelte – è un provvedimento utile a mobilizzare un mercato ancora incerto e per avviare il percorso che ci deve portare al target di riduzione delle emissioni al 2030.
Altri investimenti quali, ad esempio, una eventuale rete di distribuzione dell’idrogeno per i trasporti, specialmente se effettuati con denaro pubblico in deficit o se pagati dai consumatori, vanno ben ponderati a causa dell’alto rischio di rivelarsi non necessari o competitivi rispetto ad altre opzioni tecnologiche. Molte di queste scelte vanno poi condivise con i partner europei e con i Paesi confinanti, per cercare standard comuni e garantire una reciproca interoperabilità, ma ancora di più per creare insieme le nuove catene di valore che devono soddisfare la domanda della transizione ecologica.
di R.V.