Si fa presto a dire economia circolare. In realtà le difficoltà non mancano, e la prima è capire in modo non troppo vago di cosa si sta parlando. Il precursore è Kenneth Boulding, che in tempi non sospetti, nel 1966, propose di organizzare l’economia come un sistema circolare per garantire uno sviluppo sostenibile. Qualche lustro più tardi, nel 1989, David Pearce e Kerry Turner hanno ripreso il concetto di economia circolare basandolo sui principi delle 3R: riduzione, riutilizzo, riciclo. Gli agenti economici entrano in una prospettiva di ciclo di vita, riducendo al minimo gli input e gli scarti di produzione. Ogni sottoprodotto dovrebbe essere trasformato in una nuova risorsa per un altro ciclo produttivo. Un nuovo modello economico sviluppato per superare quello tradizionale basato sul principio “prendere, fare e smaltire”, chiamato anche “economia lineare”. Le definizioni di economia circolare sono diverse, perché si tratta di un concetto ampio di modello socio-economico che si muove verso la sostenibilità. È stato definito un sistema restaurativo e rigenerativo per progettazione; in cui i rifiuti e l’inquinamento non esistono più; e in cui i prodotti, i componenti, i servizi, i materiali e i loro sottoprodotti circolano al loro massimo valore per il periodo più lungo. Il modello dell’attuale economia lineare si basa invece su un continuo aumento della produzione, del consumo e dello scarto di prodotti, per cui a livello globale la maggior parte dei rifiuti viene attualmente scaricata o smaltita in qualche forma di discarica.
Le impossibilità dell’economia circolare
L’Agenzia federale tedesca per l’Ambiente (Umweltbundesamt) ha pubblicato qualche mese fa un libro intitolato in inglese “The Impossibilities of the Circular Economy”, che analizza i limiti dell’economia circolare. Il volume analizza da un punto di vista critico le pratiche più ricorrenti: il sottotitolo, infatti, è “Separare le aspirazioni dalla realtà”. Si tratta della quinta pubblicazione di Factor X, un progetto che propone strategie innovative per l’implementazione del cosiddetto “fattore 10” teorizzato all’inizio degli anni ’90 dal chimico e ricercatore tedesco Friedrich Schmidt-Bleek, secondo il quale per uno sviluppo davvero sostenibile i paesi industrializzati devono ridurre il loro consumo di risorse di un fattore 10 entro 50 anni.
Emblematico il titolo del primo capitolo, “Circularity dreams”. “L’economia circolare si è sviluppata in gran parte dopo il 2000. Tuttavia, il conflitto tra il concetto di economia circolare e le realtà fisiche è molto più antico. Ad esempio, i sostenitori del riciclo infinito furono pesantemente criticati sulla base della termodinamica già negli anni ’60”. Gli autori evidenziano le deboli basi su cui si poggia l’eventuale intenzione di estendere senza limiti l’approccio “cradle to cradle” (dalla culla alla culla). “Da un punto di vista politico il concetto è pericoloso in quanto non solo crea l’illusione di un mondo senza rifiuti, ma non riesce nemmeno ad affrontare gli enormi sforzi che sono realmente necessari per creare un’economia sostenibile, compresa la necessità di rallentare l’esaurimento delle risorse naturali, riducendo la domanda di energia e modificando radicalmente il design dei prodotti e dei processi produttivi. Le favole troppo semplificate e quindi fuorvianti di una rapida transizione verso un’economia circolare non aiutano. Al contrario, negano la gravità del problema e la difficoltà delle sue soluzioni”.
I cinque problemi per il World Resources Institute
Nonostante i casi virtuosi come quello di Rilegno, i problemi da superare per un pieno successo di un’economia circolare davvero sostenibile sono numerosi. Secondo il World Resources Institute, una organizzazione no profit di ricerca mondiale, sono soprattutto cinque. L’orrore di interrompere la convenienza dei consumatori, che riporta all’importanza dell’educazione dei consumatori. Le normative locali contro il concetto di economia circolare, che non sempre riesce ad affermarsi come prioritario sul territorio, perché non tutti sono in grado di comprenderne l’urgenza. La mancanza di infrastrutture per il trattamento dei rifiuti, specie in determinati paesi. La Cina è attualmente il primo produttore mondiale di rifiuti plastici. Se non ci sono abbastanza impianti di trattamento dei rifiuti plastici, questi verranno accumulati nelle discariche o scaricati in mare. Ancora, la mancanza di tecnologie di riciclaggio, che dovrebbero coprire le esigenze di tutte le industrie. L’insuffìcienza del modello di business: il mantenimento delle aspettative dei consumatori, le norme governative, la mancanza di strutture per il trattamento dei rifiuti, la mancanza di tecnologie per il riciclo, dimostrano che c’è bisogno di un migliore piano di modello aziendale per implementare il concetto di economia circolare.
Catene del valore e progettazione nodi centrali per progredire
La sola UE ha generato 225,7 milioni di tonnellate di rifiuti urbani nel 2020, di cui solo 66 milioni di tonnellate sono state riciclate. Molte delle iniziative esistenti nell’economia lineare si concentrano sulla parte finale della catena di approvvigionamento, cercando di risolvere la sfida dei rifiuti attraverso leggi e politiche ad hoc. Nel 2022 solo l’8,6% dell’economia mondiale è stata circolare. L’espansione e l’integrazione della transizione verso un sistema circolare globale richiede quindi una collaborazione senza precedenti tra settori e Paesi di tutto il mondo. Tra le sfide da affrontare figura la riprogettazione delle catene del valore: si tratta di attuare i principi circolari lungo l’intera gamma di fornitori della catena del valore, indipendentemente dalla posizione geografica – dopo la pandemia, se non altro, la catena si è mediamente accorciata. Grande importanza rivestono le scelte di progettazione, che possono evitare, ad esempio, l’estrazione di risorse non rinnovabili esplorando materiali alternativi, prolungando la durata del prodotto grazie alla modularità e alla possibilità di aggiornamento. Si pensi ai pannelli solari: si calcola che entro il 2050 ce ne saranno da smaltire circa quattro miliardi, per 78 milioni di tonnellate. Secondo alcune stime, i componenti dei pannelli solari a fine vita potrebbero valere oltre 13 miliardi di euro e dar vita a due miliardi di nuovi pannelli. A condizione che, a differenza di quanto avvenuto in passato, siano progettati per un facile riciclo: Bruxelles sta lavorando per normare la progettazione ecocompatibile in ambito fotovoltaico. Altra sfida cruciale quella dei costi di transizione, della concorrenza con i materiali vergini che spesso sono più economici. Per questo c’è chi sostiene la necessità di un quadro normativo che garantisca condizioni di parità per la concorrenza globale.
R.V.