#fashion Episodio 1
L’industria della moda, a causa del fenomeno del fast fashion, è responsabile del 10% delle emissioni di gas serra globali, aggiudicandosi il secondo posto come settore più inquinante al mondo dopo quello petrolifero.
Il problema è noto ormai da anni, e infatti la popolazione ha sviluppato un senso comune di “eco-coscienza”, per il quale ci si domanda, con frequenza sempre maggiore, da dove provengano i tessuti che acquistiamo e che impatto abbiamo sull’ambiente e la società.
In questo senso, grande merito va alla digitalizzazione: basti pensare alla risonanza che movimenti come #whomademyclothes hanno avuto grazie ai social media. Anche la pandemia del 2020 ha contribuito a cambiare la mentalità del consumatore medio, il quale, ad oggi, dice di preferire marchi etici, che utilizzino prodotti riciclabili seppur aventi un prezzo maggiore.
Eppure i consumi continuano inesorabilmente a crescere: tra i compratori più assidui troviamo la GenZ e i Millenials, che nonostante siano le generazioni più sensibili alle problematiche ambientali, sono molto influenzati dai fashion trend.
I dati più preoccupanti legati ai consumi sono quelli riguardanti lo smaltimento: non si riesce ancora a riciclare completamente i capi d’abbigliamento dismessi e di conseguenza i rifiuti tessili accumulati ogni anno superano i 92 milioni di tonnellate.
Non si tratta solo di prodotti buttati dall’utente, ma anche dell’invenduto dei negozi, che devono fare posto alle nuove collezioni.
È fondamentale che le aziende rallentino i ritmi di produzione e garantiscano una maggiore qualità dei prodotti, che di conseguenza avrebbero un ciclo di vita più lungo.
Ma le penali nel caso i marchi non adottino buone pratiche nelle fasi di produzione esistono? Sicuramente si sono fatti grandi passi avanti negli ultimi anni, riguardo la tutela dei lavoratori (Modello 231), soprattutto nei paesi non sviluppati, dove le maggiori case di moda hanno le proprie sedi produttive. Ma per quanto riguarda le dichiarazioni di Life Cycle Assessment sono ancora pochi i brand veramente trasparenti con il consumatore.
Per questo noi compratori dobbiamo investire in soluzioni di moda sostenibile.
Ma come?
Non si tratta solo di comprare meno, ma soprattutto di fare scelte consapevoli.
Quindi ecco alcuni consigli per chi vuole affacciarsi ad abitudini fashion più sostenibili:
In We are Walden vogliamo costruire:
Acquistate da brand etici, trasparenti, che usano materiali di qualità o biodegradabili. A tal proposito vi consigliamo di dare un’occhiata al sito Il Vestito Verde, che dal 2015 mappa negozi vintage e brand sostenibili presenti in Italia, rendendo più facile la fase di ricerca.
Fate decluttering sostenibile. Se avete capi che non usate più e di cui volete liberarvi, non buttateli ma usate servizi di second-hand o swapping, fisici o digitali, come Vinted e Depop. Soprattutto grazie alla digitalizzazione la compravendita di articoli usati è ormai alla portata di tutti e permette di avere un impatto positivo sull’ambiente: si allunga infatti il ciclo di vita di un prodotto che non ci soddisfa più vendendolo o scambiandolo.
Acquistate da brand etici, trasparenti, che usano materiali di qualità o biodegradabili. A tal proposito vi consigliamo di dare un’occhiata al sito Il Vestito Verde, che dal 2015 mappa negozi vintage e brand sostenibili presenti in Italia, rendendo più facile la fase di ricerca.
Come sempre, quando si parla di sostenibilità, informarsi da fonti autorevoli è una prerogativa.
A tal proposito vi consigliamo qualche fonte da cui attingere
per rimanere in materia fashion e sostenibilità:
The True Cost: un docu-film del 2015 che denuncia l’impatto del fast fashion sull’ambiente e la società.
Dress the Change e Fashion Revolution Italy: entrambe associazioni italiane che sensibilizzano sui problemi della moda “insostenibile”
BoF – Business of Fashion: tramite iscrizione alla loro newsletter potete scaricare i loro report annuali sui brand fashion più rinomati, per scoprire di più riguardo le loro pratiche produttive.