Il movimento dei Makers

Il movimento dei Makers

Cosa succede quando la generazione del web alza la testa dal computer e riscopre il mondo reale?
Nasce il movimento dei maker, gli artigiani digitali. L’immagine è di Chris Anderson, direttore dell’edizione americana di Wired dal 2001 al 2012, autore di un libro il cui titolo è un programma: “Makers. The New Industrial Revolution”. Per Anderson un maker è chi utilizza strumenti digitali per sviluppare e realizzare materialmente progetti, per poi condividerli fisicamente e online con la comunità.
Per Dale Dougherty, direttore della rivista “Make”, i makers vogliono “hackerare” il mondo così come si hackerano i computer; ma un hacker, prima di essere identificato come un pirata informatico, era qualcuno che aveva l’ambizione del cambiamento. È come se durante l’immersione negli schermi dei pc i maker avessero ricevuto un segnale analogo a quello che compare sul computer di Neo, l’eroe di Matrix: toc toc! Segui il bianconiglio.

fonte: www.newyorker.com

Più che del messaggio di Morpheus, in questo caso si è trattato di un’intuizione: la macchina che ho di fronte, che mi stacca dal mondo circostante per ore, può aiutarmi a rituffarmici, reinventandolo. I bit sono virtuali, immateriali, ma possono aiutare a creare nuovi oggetti materiali non più prodotti in serie, ma personalizzati e condivisi.
È l’ennesima disintermediazione della rete: così come i venditori fisici vengono scavalcati dalla vendita online, e le banche fisiche da quelle virtuali, anche i produttori di massa possono essere sostituiti da tanti piccoli produttori che si avvalgono della tecnologia, oltre che della loro stessa creatività.
Il movimento dei maker dunque è anche un ritorno all’esplorazione fisica, alla materia, una reazione al senso di disconnessione legato alla virtualità; e allo stesso tempo è una messa in discussione, anzi un hackeraggio, della produzione di massa, per di più globalizzata: il chilometro, per il maker, è davvero, non simbolicamente, zero.
E secondo lo scrittore Cory Doctorow, autore del romanzo “Makers”, i maker scardinano (hackerano) hardware, modelli di business e soluzioni abitative per scoprire modi per rimanere vivi e felici anche quando l’economia sta crollando.

L’approccio dei Makers

Km zero, dunque: è solo una delle connessioni del movimento dei maker con il tema della sostenibilità. Sempre più l’artigiano digitale utilizza le tecnologie disponibili per riciclare in modo creativo e migliorativo componenti recuperati da prodotti dismessi o materie prime di scarto: è il cosiddetto upcycling, che avvicina di fatto il mondo dei maker a quello del riciclo e del riutilizzo.
A questo va aggiunto che uno dei materiali utilizzati dai makers è proprio il legno. Se è vero, infatti, che spesso si associa al movimento l’utilizzo delle stampanti 3D, sarebbe sbagliato ridurre il fenomeno dei maker solo a questo, come pure talvolta si fa. Anche la semplice condivisione delle informazioni, moltiplicata all’infinito dal web, permette di cimentarsi nell’artigianato, incluso quello del legno; e la dimensione comunitaria del movimento maker prescinde dall’utilizzo o meno delle macchine del terzo millennio

Quel che caratterizza i maker, oltre alla dimensione digitale, è proprio quella di comunità: in questo si differenziano dagli artigiani del nostro immaginario tradizionale, nobilmente isolati e dediti in solitario silenzio al loro lavoro di cesello.
Proprio dalla dimensione comunitaria scaturisce uno dei punti di forza del movimento dei makers: le loro creazioni non sono soggette alla tutela dei diritti d’autore, ma solo alla community nell’ambito della quale sono progettati; e come è stato osservato un prodotto, all’interno di una dimensione comunitaria aperta, è migliorabile e quindi competitivo.

Gli spazi

Quando si parla di maker ci si riferisce spesso all’approccio Fai da te, quando si dovrebbe invece pensare al Fai da noi: la condivisione, in termini di community a livello fisico e di open source in senso virtuale, è quel che accomuna e mette insieme gli artigiani digitali di tutti i settori. Di qui l’importanza dei luoghi nei quali i maker si ritrovano e soprattutto costruiscono, chiamati spazi hacker, di innovazione collaborativa; che quando diventano fisici sono chiamati più frequentemente makerspace, o meglio fablab (fabrication laboratory), che oggi sono presenti in oltre 100 Paesi del mondo.

Ci sono 4 condizioni perché un laboratorio possa essere considerato un fablab.

1. L’accesso al laboratorio deve essere pubblico, anche se per un periodo limitato della settimana;

2. Il laboratorio deve sottoscrivere ed esibire al proprio interno la Fab Charter, il manifesto dei fablab scritto da Neil Ghershenfeld (uno dei punti: I progetti ed i processi sviluppati nei fab lab possono essere protetti e venduti nel modo che l’inventore desidera ma dovrebbero rimanere disponibili perché gli individui possano usarli e imparare da essi);

3. Il laboratorio deve avere un insieme di strumenti e dei processi condivisi con tutta la rete dei fablab;

4. Il laboratorio deve essere attivo e partecipe della rete globale dei fablab, non può isolarsi dagli altri laboratori o negare collaborazione.

La dimensione economica

Per tornare alle definizioni di Chris Anderson, “La prossima rivoluzione industriale sarà guidata da una nuova generazione di piccole imprese, a cavallo tra l’alta tecnologia e l’artigianato, capace di fornire prodotti innovativi, altamente personalizzati, a scala limitata […]”.
Questo aspetto del movimento maker è particolarmente compatibile con la struttura dell’economia italiana, costituita proprio di piccole imprese. Non per niente, uno sviluppo dei fablab italiani va proprio nella direzione di una collaborazione attiva con l’impresa. Una parte dei fablab nati negli anni scorsi, infatti, ha esaurito l’iniziale spinta propulsiva e chiuso i battenti; mentre un’altra ha trovato linfa vitale nella ricerca applicata, evitando la trappola della tecnologia autoreferenziale – bello il robottino, ma a che serve? – e riscoprendo il suo utilizzo con uno scopo industriale.
L’utilizzo dei bracci robotici nei fab lab per esempio, fino a tempi recenti utilizzati esclusivamente nell’industria, ha prodotto risposte creative alle esigenze di mercato, per esempio in campo di edilizia sostenibile, dove spesso si utilizzano materiali naturali come il legno.

D’altra parte l’Italia è parte rilevante del movimento fin dal 2005, quando Massimo Banzi realizzò Arduino, una piattaforma basata su un hardware e un software semplici e flessibili, che consente di prototipare rapidamente con l’elettronica. Un piccolo aggeggio elettronico delle dimensioni di una carta di credito e dal costo ridotto che, collegato al computer, permette di animare una vasta gamma di oggetti.

Le due strade, insomma, restano entrambe aperte: quella dei fablab che inventano soluzioni per l’industria, e quella degli ex nerd che vogliono scoprire la gioia di realizzare quel che hanno progettato, condividendolo. Per tornare alle metafore di Matrix tra virtuale e reale, non resta che calarci nei panni di Morpheus e chiedere all’aspirante artigiano digitale esitante di fronte al primo lavoro concreto da realizzare: Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e continuerai a comprare oggetti fabbricati in serie. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, costruisci i tuoi manufatti e vedrai quant’è profonda la tana dei maker!

    R.V.

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